Miriam Marino presenta
Macerie (edizione Città del Sole)
accompagna l’autrice Ugo Giannangeli
Un romanzo che si svolge sullo sfondo delle due Intifade e abbraccia 15 anni di storia palestinese. La protagonista, che racconta in prima persona, è Tikva, una giovane cresciuta in Israele con il padre. Quando scopre di avere una madre palestinese è un’adolescente e in quel momento sta iniziando la prima Intifada. La ragazza riesce a rintracciare sua madre e incontrarla, da quel momento la sua vita cambierà. Inizialmente l’impatto con una realtà così diversa da quella in cui è cresciuta la traumatizzerà e non riuscirà a credere ai racconti dei ragazzi palestinesi. Ma presto la sua incredulità diventerà consapevolezza a misura che vedrà con i propri occhi il livello dell’oppressione, e dell’apartheid portata dall’occupazione coloniale. Attorno a lei si muovono altri personaggi, suo padre, un progressista israeliano, i suoi parenti, gli amici israeliani e palestinesi. Nel 2000 scoppia la seconda Intifada, Tikva ha da tempo fatto la sua scelta di campo, una scelta determinata e sofferta: «Ho portato a casa una rosa. E’ una rosa pallida come le mani e il volto di cera di un morto bambino trasportato a spalla durante il funerale a Hebron. La rosa è caduta dalla sua barella e io l’ho raccolta. Ha fatto la strada con me fino a Tel Aviv e sopravvissuta a tutti i check point. Nella mia stanza l’ho messa in un calice con l’acqua e l’ho posta sulla mia scrivania. Ho fatto male. Ogni volta che la guardo vedo il volto di quel bambino con la tenera bocca semiaperta e tuttavia muta. La rosa urla per lui ed è ancora viva. Non fresca, non lo è mai stata, ma viva. Si seccherà prima o poi, penso. Ma lei vive e testimonia quietamente il dolore. Un dolore che è dappertutto. Ne sono impregnate le pareti della stanza, attraversa la finestra da cui il sole è fuggito come un ladro lasciando solo una smorta luce ottusa, avanza lungo le mattonelle, inonda silenziosamente i vestiti e va a fermarsi come una pietra in mezzo al mio petto. Respiro a fatica, respiro sotto l’acqua, (…..) mi sento vuota a parte il peso che mi comprime il petto. Ho sofferto troppo. Poi mi afferra il rimorso. La tragedia è davanti ai miei occhi, ma a rigore non mi ha toccato, soffro come testimone. Ma la mia vita dov’è? L’idea della felicità, del futuro è assente incomprensibile, non ha diritto di cittadinanza nella mia mente.»
Il dolore ormai occupa ogni spazio e ogni pensiero, il romanzo termina con la distruzione del campo profughi di Jenin.
In un certo senso è la storia di una presa di coscienza che si rafforza sempre più nel tempo. L’evidenza dell’occupazione non lascia spazio a dubbi e perplessità sulla strada da prendere e con Tikva, anche il lettore viene condotto piano piano attraverso lo svolgersi della storia a un’unica e sicura conclusione: Israele è uno stato coloniale che occupa militarmente un altro popolo in modo feroce e tesse una fitta rete di menzogne per nascondere la realtà, la sua decadenza morale e la sua mancanza di umanità